PIOMBINO. Si chiama «Tempo tuta» ed è la vertenza collettiva che Slai Cobas ha appena aperto in Magona. Il sindacato di base punta al riconoscimento - in termini economici oppure di riduzione d’orario - del tempo necessario ad indossare gli indumenti di lavoro a inizio turno e, a fine giornata, a svestirsi. Si tratta di una campagna nazionale che Slai Cobas attiva nelle realtà produttive di grandi dimensioni territoriali. Ma solo dove le condizioni logistiche lo consentono.
Sono tagliate fuori le aziende - come Dalmine e Lucchini - in cui il cartellino si timbra prima di raggiungere gli spogliatoi. Automaticamente, in questi casi, nel monte-ore mensile finiscono anche i periodi impiegati per il cambio degli abiti.
«In Magona, invece, i presupposti ci sono perchè ingresso e uscita si registrano nei pressi delle postazioni di lavoro, non alla portineria», spiega Giancarlo Chiarei. Per il responsabile Slai Cobas, in sostanza, quando il dipendente indossa gli abiti da lavoro, esegue una disposizione aziendale. Quindi, il tempo necessario a svolgere l’operazione preliminare, indispensabile per svolgere la propria mansione, rientra a buon diritto nell’orario da retribuire.
«Siamo in presenza di pronunciamenti difformi», prosegue Chiarei, elencandone alcuni espressi dalla Cassazione e altri da tribunali. In certi casi, il tempo impiegato dal varco d’accesso dello stabilimento di grandi dimensioni allo spogliatoio assegnato, è lavoro effettivo e come tale va retribuito «solo se una volta passato il cancello d’ingresso, il dipendente è assoggettato al potere direttivo organizzativo del datore di lavoro senza la libertà di autodeterminazione».
Parte della dottrina giuridica, invece, è di avviso diverso e ritiene che la mancanza di controllo del datore di lavoro non impedisca di qualificare il tempo-tuta come lavoro vero e proprio.
Ma è partendo da un decreto legge del 2003, che recepiva una direttiva comunitaria relativa all’organizzazione dell’orario di lavoro, che, secondo Chiarei, è utile soffermarsi. In particolare, là dove si stabilisce che «orario di lavoro è qualsiasi periodo in cui il dipendente sia al lavoro a disposizione del datore, nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni».
«Alcune cause che abbiamo promosso, hanno ottenuto l’applicazione di questo diritto, ottenendo da 5 a 15 minuti di riduzione e in maniera retroattiva», aggiunge Chiarei, portando come esempi più conosciuti Standa e Max Mayer.
Proviamo a fare due conti. La richiesta di base, appunto, va dai 5 ai 15 minuti per turno. Se il giudice confermasse le tesi dei legali messi a disposizione dai Cobas e quantificasse il diritto in 10 minuti, moltiplicandoli in maniera forfettaria per 260 giornate lavorate in un anno, si arriva a 2.600. Poco più di 43 ore. Supponiamo che il dipendente abbia un’anzianità ventennale, eccoci a 860 ore da recuperare. Con un importo orario di dieci euro si arriva a circa 8.600 euro lordi.
Per gli anni successivi, la riscossione potrebbe essere sostituita da un aumento dei riposi.
Anche i pensionati possono tentare. Basta che al momento della domanda non siano stati superati i cinque anni dall’uscita dalla fabbrica.
Fonte: il Tirreno del 3.08.09
Autore:Valeria Parrini